Benvenuti o ben ritrovati su questa nuova edizione fresca di stampa del Weakly Hobbyt. Ancora una volta, nonostante il gruppo di autori del blog si sono conosciuti e riuniti principalmente per la passione per i videogiochi, e abbiamo proprio un videogioco nel banner, molti articoli sono di natura filmica, con recensioni di Oblivion di Tom Cruise, Drive recensito da Alteridan e il terzo di quattro film che si interessano del tema del nazismo che recensirò questo mese, La Vita è Bella. Oltre questo, una piccola dose di manga, tanto per gradire.
Oh, e finalmente l’Italia ha di nuovo un presidente. Il vecchio. Meglio di niente, e molto meglio di alcuni votati.
Buona lettura! =)
Hotline Miami
(A cura di Alteridan)
Cosa hanno in comune una segreteria telefonica, una mazza da baseball, una DeLorean e una serie di maschere a forma di animale? La risposta è una semplice parola: sangue. E sangue fa rima con violenza.
Ricordate gli anni ’80? I vestiti bianchi da gelataio, la massificazione della musica elettronica, le discoteche, e Miami. Miami è stata ed è tuttora considerata la capitale mondiale di tutto ciò che hanno rappresentato gli anni ’80 nel mondo occidentale.
Hotline Miami è tutto quello che ho scritto qui sopra, e probabilmente molto di più.
Lasciate un messaggio dopo il bip
Il titolo confezionato dai due programmatori svedesi Jonatan Söderström e Dennis Wedin ci mette nei panni di un ragazzo dal nome sconosciuto che all’inizio di ogni giornata riceve dei misteriosi messaggi telefonici, l’ignoto interlocutore spesso comunicherà all’avatar del giocatore il luogo e l’ora in cui questi dovrebbe effettuare una consegna o svolgere un determinato lavoro, in realtà l’interlocutore indica il posto dove il protagonista dovrà uccidere ogni singola persona che si trovi in quel luogo.
La narrazione in Hotline Miami è estremamente criptica e lascia molto spazio all’immaginazione, merito anche di una successione degli eventi non ordinati in maniera consequenziale dal punto di vista temporale. Non disperate comunque, quasi tutti gli innumerevoli interrogativi troveranno un’adeguata risposta entro la fine del gioco.

Cosa ci chiederà il fantomatico Thomas quest’oggi?
Resta tuttavia ben saldo lo scopo ultimo del gioco: eliminare ogni singolo essere vivente presente in ognuno dei livelli messi a disposizione del giocatore.
Sangue a 8-bit
Hotline Miami si presenta come uno shooter top-down vecchio stile ma ciò che balza subito alla vista è l’assenza della barra della salute. Nelle violente notti di Miami rimetterci le penne è un attimo: basta infatti un solo colpo per metterci al tappeto e costringerci a riavviare il quadro. Se da un lato questo potrebbe sembrare un aspetto negativo, dall’altro è senza dubbio positivo per almeno un paio di motivi: il primo è che anche i nostri avversari andranno giù con un solo colpo, ad eccezione di una ristretta minoranza di nemici dotati ad esempio di giubbotti antiproiettile, il secondo è che questo costringe il giocatore a pianificare ogni azione.
Un altro aspetto che colpisce è la presenza di decine di armi, ognuna differente: se ad esempio una mazza da baseball è l’arma base e potrebbe non uccidere sul colpo il nostro bersaglio, un coltello ha un raggio d’azione più limitato ma basta un singolo fendente per mandare al creatore qualsiasi nemico. Un discorso a parte meritano le armi da fuoco: sono senza dubbio le armi più potenti avendo una gittata maggiore e una forza letale naturalmente superiore rispetto alle armi da mischia, ma sono rumorose e basterà premere anche solo una volta il grilletto per ritrovarsi addosso la quasi totalità dei nemici, e nel 90% dei casi questo significa game over.

Accumulando punti sbloccheremo armi via via sempre più potenti.
Inoltre, all’inizio di ogni livello il protagonista potrà scegliere quale maschera indossare, ciascuna raffigurante un diverso animale e ciascuna con un potere differente. Le abilità che le maschere doneranno al giocatore saranno di vario tipo: come la possibilità di iniziare il livello armato di coltello oppure una camminata più veloce.
Miami violenta
Hotline Miami è un gioco violento, va precisato subito. La quantità di arti mozzati ed esecuzioni brutali presenti in questo gioco è seconda solo alle centinaia di litri di sangue che si andranno a depositare sui pavimenti dei livelli che giocheremo.

La scia di cadaveri si allungherà sempre di più.
Le situazioni che andremo a vivere tramite il nostro alter ego virtuale saranno disturbanti e metteranno costantemente in ansia anche i giocatori più navigati, non tanto per la violenza in sé ma perché la morte e quindi il game over potrebbe arrivare in qualsiasi momento, magari perché abbiamo deciso di far soddisfare la sete di brutalità del protagonista facendolo soffermare troppo durante un’esecuzione di un nemico, tutto per avere qualche centinaia di punti in più.
Hotline Miami è tutto questo e molto altro.
Giù la maschera
Descrivere con le parole Hotline Miami è molto difficile, ogni persona vive le avventure del protagonista senza nome in maniera differente: c’è chi lo considera troppo difficile e lo snobba, chi invece lo apprezza proprio per questo motivo, e chi lo reputa semplicemente un gioco magnifico in ogni suo aspetto.

All’inizio ed al termine di ogni livello assisteremo ad alcuni dialoghi, per la maggior parte non interattivi.
Personalmente faccio parte di quest’ultima categoria: Hotline Miami è perfetto, sia per quanto riguarda il mero gameplay, sia per tutto ciò che concerne la direzione artistica in generale. Basti pensare alla cura minuziosa riposta nella creazione di ogni singolo livello, oppure alla cura nel creare e selezionare ogni singolo brano della colonna sonora, pregna di brani che sembrano essere usciti direttamente da quegli anni ’80 dominati dai sintetizzatori e dalle sonorità psichedeliche.
Questo gioco ha però un solo difetto: vorreste non finisse mai, purtroppo però Hotline Miami dura solo cinque ore, seppur molto intense.
Hotline Miami è un titolo coraggioso e visionario, uno di quei pochi titoli in grado di usare la violenza in modo saggio e mai gratuito. Hotline Miami è un capolavoro della scena indipendente in grado di competere ad armi pari con titoli ben più blasonati e famosi, e probabilmente li straccerebbe quasi tutti.
Voto personale: 9,5/10
La Vita è Bella
(A Cura di Celebandùne Gwathelen)
Continuiamo il nostro excursus in film che parlano delle atrocità del nazismo in maniera totalmente italiana, con uno dei film che più fece parlare di attori e registi italiani a livello mondiale. La Vita è Bella è l’ormai famoso film che rese Benigni conosciuto al di là dei confini italiani, uscito nel 1997 e vincitore di ben tre Oscar (Miglior Film Straniero, Migliore Colonna Sonora e Migliore Attore Protagonista – Roberto Benigni).
La trama del film ruota attorno a Guido Orefice (Roberto Benigni), giovane italiano che finalmente trasloca in città per tentare la sua fortuna. Suo zio, Eliseo, è il proprietario di un Hotel ad Arezzo, un italiano di origini ebree molto sobrio e dedicato al suo lavoro. Guido vuole lavorare nel suo albergo come cameriere, e lo zio lo ospita in un suo caseggiato dove conserva mobili d’antiquariato (incluso un letto su cui si dice abbia dormito Garibaldi!). Durante il suo viaggio verso Arezzo e una volta ad arezzo stesso, incontra spesso una ragazza di nome Dora (Nicoletta Braschi), che fa l’insegnante di scuola elementare. Una volta la giovane Dora gli cade “dal cielo” tra le braccia, nel loro primo incontro, in seguito Guido fugge con la bici dal datore di lavoro di un suo amico e per caso si trova di nuovo su Dora. In seguito molte “coincidenze” dei loro incontri vengono architettati da Guido, con il risultato che Dora inizia a provare una forte simpatia per lui.

Guido Orefice (Roberto Benigni) va ad Arezzo per aprirsi una libreria.
Contemporaneamente, il clima anti-semita aumenta, e durante una festa nell’albero dello zio Eliseo, il suo cavallo bianco viene dipinto di verde con su scritto in nero “Achtung! Cavallo Ebreo”. Guido non la prende troppo sul serio la cosa, finchè lo zio non gli fa capire che la situazione è seria. Durante quella stessa festa, Guido capisce che Dora sta per sposarsi, con un avvocato che insiste nel non far aprire una libreria a Guido. Dora però è stanca del comportamento troppo prevedibile e noioso del suo fidanzato, e durante la festa chiede a Guido di portarla via. Quando viene servita la torta, Guido entra in sala col cavallo verde e porta via Dora.

E’ con simpatia e semplice spontaneità che Guido riesce a conquistare Dora (Nicoletta Braschi).
I due off-screen si sposano e dal loro amore nasce Giosuè, un bambino innocente anche se testardo, improvvisatore e scherzoso come il padre. I tre sembrano avere una vita felice, nonostante il clima di guerra peggiori. Quansdo la guerra inizia a volgere male e al Reich tedesco servono più lavoratori, però, Guido, Giosuè e lo zio finiscono sulle liste naziste. Giusto il giorno del compleanno di Giosuè, quando la madre di Dora finalmente si riconcilia con la figlia dopo non averci più parlato dal giorno della fuga sul cavallo verde, i tre vengono deportati mentre Dora è via a prendere la madre ed invitarla a casa. Sull’autobus, Giosuè non capisce cosa stia succedendo e chiede delucidazioni al padre. Guido stesso ancora non ha capito bene cosa succede e dice a Giosuè che è una sorpresa per lui. Quando i tre salgono sul treno, Dora li raggiunge, non volendo lasciare la sua famiglia.

I tre, per alcuni anni, vivono una vita stupenda, nonostante il clima antisemita dell’Italia occupata.
Così i quattro vengono deportati verso un campo di concentramento nazista (Bergen-Belsen?) dove Guido tenta in tutti i modi di nascondere al figlio la terribile verità di quello che succede nel lager. Convince così Giosuè (anche rischiando “capa e collo”) che tutto è un gioco architettato per lui (e altri bambini) che consiste nel collezionare punti facendo vari “giochi”; una volta arrivati a mille punti, si vince un carro armato vero. Giosuè, appassionato di Carri Armati, rimane stupefatto dalla notizia e inizia a “giocare” col padre. Quando diverse volte a Giosuè viene narrata la realtà di quello che succede da altri bambini o da un anziano signore che piange, Guido gli dice di non farsi fare fesso, che il Carro Armato fa gola a tutti e che lo vogliono solo fregare.

Guido maschera gli orrori del campo di concentramento a suo figlio Giosuè (Giorgio Cantarini), dicendogli anche di non credere a quello che dicono gli altri.
Quando la guerra finisce, i Nazisti iniziano a fare strage di prigionieri e lavoratori del lager. Guido dice al figlio di nascondersi per bene e uscire solo dal nascondiglio quando vige il silenzio assoluto; il giovane si nasconde in un armadietto. Guido nel frattempo cerca di trovare Dora, travestendosi da donna, ma la sua ricerca è vana. Anzi, nel tentativo di rivedere la sua principessa, viene beccato e portato in un vicolo del campo (passando davanti all’armadietto in cui è nascosto Giosuè, per il quale fa un’ultima recitazione) per poi venire sparato lì. Il mattino dopo, il campo è deserto, e quando anche i prigionieri del lager lasciano il campo, Giosuè esce infine dal suo nascondiglio. Poco dopo, nel carro compare un carro armato delle forze alleate, e Giosuè felice di gioia urla “E’ vero!”. Il giovane viene fatto salire sul carro armato, finchè non vede la madre tra i sopravvissuti e corre da lei felicissimo di aver “Vinto!”.

Quando Giosuè, solo nel campo di concentramento abbandonato, vede arrivare il carro armato alleato, è fuori di sè dalla gioia!
Una voce anziana narrante fuori campo fa capire che è lui Giosuè, e di come solo in seguito abbia capito come il regalo del compleanno del padre era il suo sacrificio e la sua storia per preservare al figlio i terrori del campo di concentramento.
Per quel che mi riguarda, La Vita è Bella è un film che riesce a prendere un tema delicato, e renderlo semi-comico (con quell’ovvio tocco di orrore che c’è sempre quando si parla di Nazisti e Campi di Concentramento). La vicenda del padre che tenta di nascondere al figlio l’orrore della vita dei campi di concentramento è narrata in maniera incredibilmente commovente, pieno di alti di speranze e bassi di disperazione.

Guido rischia costantemente la vita per amore del figlio.
Guido è ritratto come un giovane pieno di vitalità e dalla battuta pronta, anche un pò fortunato con le casualità che intorno a lui accadono, con le quali riesce a conquistare Dora prima e schermare Giosuè poi dagli orrori del campo. Nella prima parte del film, in particolare, si esercita il lato comico di Roberto Benigni, con coincidenze ridicole e mimiche divertenti.
Nella seconda parte del film, Guido viene catapultato a sua volta in una realtà che lo zia aveva da molto tempo previsto, ma di cui Guido stesso non aveva vagamente idea. Proprio lo zio Eliseo è tra i primi a venire mandati nella Camera a Gas del lager, poichè troppo vecchio per lavorare in una fonderia. Anche i bambini dopo un pò, con la scusa di fare la doccia, vengono mandati nelle Camere e Gas e solo grazie alla poca voglia di Giosuè di lavarsi, il ragazzo è salvo. I partricolari della trama che non ho raccontato nel mio riassunto sono tanti e belli (come il dottore Nazista fissato di indovinelli, una scena in cui Guido fa parlare a molti bambini tedeschi italiano, una scena in cui “traduce” le regole del lager per Giosuè) e sono proprio questi dettagli e queste particolarità che rendono il film così bello da vedere.

Dora è nel campo di concentramento con Guido e Giosuè; vedrà il marito solo una volta, e di sfuggita, nel lager.
Sul film devo dire un paio di parole finali. Per quanto tecnicamente sia eccezionale, e a livello di recitazione non ci siano problemi di alcun tipo, nè ce ne siano nella sceneggiatura e ce ne sono minimi nelle scene di lingua tedesca (ma me ne rendo conto io perchè SONO tedesco), me lo ricordavo più bello. Questa è la seconda volta che lo vedo (la prima fu quando uscì in VHS/DVD) e probabilmente perchè molte battute, parti divertenti e parti tristi le avevo ancora vagamente in memoria, il film mi ha colpito meno. Ciononostante posso con tranquillità dire che siamo di fronte a uno dei capolavori di cinema italiano e che il film deve venire visto da chiunque. In particolare le scene finali del film mi riescono sempre a commuovere; sono convinto che quando sarò padre, il film assumerà per me un ancora nuovo significato, che al momento ancora non riesco a concepire pienamente. Anche per questo, perchè è un film che lo si può rivedere e rimanerne ancora affascinati, è un opera dalla portata enorme e dal valore artistico altissimo.
Grande Roberto Benigni, e grandi tutte le persone che hanno contribuito a questo capolavoro.
Voto Personale: 9/10
Little Big O
(A cura di Wise Yuri)
Celebandune parla di fumetti, io (ogni tanto) di manga, (anche se sono sicuro non ci sarebbe problemi ad invertire il tutto 🙂 ), spero non vi dispiaccia. 😉
Oggi tiro fuori dal cilindro (e dalla mia piccola collezione) una serie che dubito avrete anche sentito nominare, un piccolo manga in 6 volumi chiamato The Big O. Di cosa tratta? Presto detto. The Big O è un manga steampunk (ovvero una commistione di scenari antichi con tecnologia fantastica o anacronistica, prendere ad esempio Full Metal Alchemist) che narra le vicende di Roger Smith.
In questo scenario fantastico stile anni ’30, esiste Paradigme City, una città che a causa di un imprecisato evento accaduto 40 anni prima, vive nella completa amnesia. Ricchi che vivono nella parte della città dotata di elettricità , di luce artificiale – detta Dome -, o poveri che vivono nel buio all’esterno del Dome, dove il sole non splende da decenni, entrambi non hanno più ricordi, i quali diventano quindi molto più preziosi di qualsiasi gioiello. In questa città si muove il protagonista, Roger Smith, che lavora come negoziatore, ma è anche in possesso di un potente mecha gigante che usa per risolvere situazioni violente e fuori controllo, il titolare Big O, che ha pure una sua bizzarra “frase d’evocazione” (come da tradizione per manga coi robottoni, presumo): “CAST IN THE NAME OF GOD YE NOT GUILTY”.
Forse a qualcuno di voi è già venuto in mente quello che sto per dire, ma il tutto ha un che di Batman, considerato che Roger ha pure un maggiordomo, e si ritrova a fare l’eroe, spesso affrontando un criminale senza scrupoli ma carismatico e con un che di comico di nome Beck, che diventa la sua nemesi. Se non vi viene in mente Batman dopo aver letto questo…. beh, non so cosa altro dire. XD Ma attenzione, parlo di somiglianze, perchè queste sono, The Big O non è in nessuno modo una copia in salsa steampunk/manga di Batman. anche se il paragone con il vigilante di Gotham City non è del tutto errato, ed è abbastanza ganzo, se mi permettete. 😀
La storia ed il setting di per sè non sono particolarmente originali per il genere (ricordi perduti, androidi, citta distopiche e l’elettricità come l’energia principe e più potente), ma neanche banali (già di per sè il setting anni 30 con androidi e mecha è curioso), e sono comunque molto solidi. il tono introspettivo/psicologico delle vicende è quello principale dell’opera, da detective movie, ma è ben equilibrato con le scene d’azione sui mecha, ed il ritmo è sempre buono, c’è sempre qualcosa in ballo e vengono pian rivelati dettagli sui personaggi, sulla misteriosa città di Paradigme, e così via.
i personaggi non sono propriamente originali, ma sono tutti ben caratterizzati e solidi, con qualche eccezione riguardante più che altro ipersonaggi secondari (come il maggiordomo Norman) che potevano aver maggior spazio e sviluppo se il manga fosse stato più lungo, ma al contrario dell’ultimo manga che ho recensito (Variante, quella miniserie splatter/horror), qui fortunatamente la brevità dell’opera non influisce sulla caratterizzazione, la quale si mantiene molto buona per tutti e sei i volumi che compongono il manga, e non male anche per quanto riguarda personaggi relativamente secondari, e che compaiono in un solo capitolo. I protagonisti principali dell’opera sono ovviamente Roger Smith e Beck, oltre al Big O ed ai robot in generale. Prima avevo detto come i due protagonisti e la loro relazione mi ricordasse Batman (nello specifico, quello di Tim Burton con Jack Nicholson), ed effettivamente non è difficile fare un parallelo: Roger è una persona ricca, con maggiordomo, che in segreto mantiene l’ordine combattendo contro i criminali, e Beck è un personaggio crudele, spietato, disposto a tutto, ma al contempo con un che di comico, imprevedibile pure per i suo scagnozzi, che finisce per scontrarsi più volte contro Roger.
Ma come avevo detto prima, sono semplici somiglianze perchè comunque sono personaggi differenti e gli autori non hanno cercato in alcun modo di copiare la bellissima meccanica eroe-cattivo del film di Burton ( e di Batman e Joker in generale): Roger cerca di mantenere l’ordine sia con il suo lavoro di negoziatore che con il suo mecha, è di animo buono ma non è un vero e proprio eroe, cerca di fare quello che può, e di non anteporre l’ignoto passato al futuro, ed è; Beck invece è guidato da un’avidità infinita, e non si fa problemi a passare sopra a tutto e tutti pur di ottenere quello che vuole,e non gli importa molto della memoria e dei ricordi, ma è anche carismatico e sopra le righe in maniera comica. è uno scontro tra due personalità opposte molto forti, nulla di originale, ma uno “scontro” ben orchestrato ed interessante. Le somiglianze e l’ispirazione al personaggio del Cavaliere Oscuro ci sono, ma parlare di plagio è fuori luogo.
Per quanto riguarda la grafica, The Big O ha uno stile di disegno decisamente non moderno, un pò da manga anni 80, ma non arcaico, nel senso che comunque non sembra un prodotto dei tardi anni ’70- primi anni ’80, come Galaxy Express 999, per fare un’esempio a caso. Infatti googlando si scopre che è una serie del tardo 1999-2001, il che fa pensare ad una chiara scelta stilistica. Ad ogni modo, la qualità dei disegni è buona, il design dei mecha è vecchio stile (quindi niente robot ultrasnodati ed agili) e non male davvero, ed il tocco noir/hard boiled ci sta molto bene, con bar fumosi, whisky sorseggiati alla penombra, etc.
Commento Finale: The Big O è un curioso e sottovalutato mix tra un manga psicologico/stile detective movie con un tocco noir anni’30 ed un manga con mecha (o robottoni, se volete), realizzato bene, disegnato con cura, ma che purtroppo finisce troppo presto, rimanendo comunque molto godibile, particolare e degno di un’occhiata se cercate qualcosa di originale. Va però detto che questo è uno di quei rari casi in cui è il manga ad essere creato dopo il successo dell’anime, e non viceversa, come avviene di solito. Dico questo perchè la originale serie TV è composta da 26 episodi, e quindi dovrebbe esserci più spazio per sviluppare personaggi e trama rispetto alla versione manga, che usa gli stessi concept base dell’anime ma ha comunque ha una storia diversa. Consigliato, ancor più perchè molto probabilmente troverete il manga nelle fumetterie specializzate, magari strascontato in blocco perchè purtroppo è semisconosciuto ed ha apparentemente venduto poco.
Drive
(A cura di Alteridan)
Cinque minuti, questo è ciò che vende il protagonista di Drive, film diretto dal danese Nicolas Winding Refn e tratto dall’omonimo romanzo di James Sallis.
Il protagonista di cui non si conoscerà mai il nome, il driver interpretato da Ryan Gosling, è un ragazzo che lavora nell’officina meccanica dell’amico Shannon (Bryan Cranston) e che occasionalmente fa anche lo stuntman per alcune produzioni hollywoodiane. Il driver è un pilota eccezionale con una doppia vita di cui solo Shannon è a conoscenza, egli infatti di notte fa da autista per ladri e rapinatori.
Cinque minuti, questo è quanto serve al driver per trasportare in un luogo sicuro i suoi passeggeri, ciò che accade un minuto prima e un minuto dopo non è di sua responsabilità né gli interessa.
Durante le prime battute del film, il driver decide di trasferirsi ed è qui che il film entra nel vivo. Il protagonista conoscerà la sua nuova vicina di casa Irene (Carey Mulligan) e suo figlio Benicio (Kaden Leos) ed è subito chiaro che qualcosa nasce tra loro, un sentimento che però viene interrotto quando il marito di Irene, Standard Gabriel (Oscar Isaac), torna a casa dopo essere stato scarcerato.

Il driver in compagnia di Irene e del figlio Benicio.
Da qui in avanti il driver, per motivi che sta a voi scoprire, si ritroverà invischiato in una serie di eventi che lo faranno entrare in contatto con la criminalità organizzata e che faranno uscire allo scoperto la parte violenta del protagonista. Proprio a questo proposito va detto che in linea di massima Drive non è un film violento ma alcune scene sono estremamente crude e potrebbero turbare un pubblico facilmente impressionabile.
Drive è in ogni caso un film che lascia il segno, non a caso nonostante sia un film molto recente (2011) è già diventato un fenomeno di culto grazie ad una realizzazione tecnica ineccepibile e particolareggiata, merito sia del regista (vincitore di diversi riconoscimenti per questo film, tra cui anche il premio di miglior regista al Festival di Cannes), sia della trasposizione fedele dell’atmosfera del romanzo da cui è tratto, nonostante le numerose divergenze.
Il merito del successo va comunque anche e soprattutto agli attori, primo fra tutti Ryan Gosling: la sua interpretazione di un personaggio così complesso come quello del driver è impeccabile, riuscendo a comunicare con chiarezza allo spettatore la dualità del suo personaggio. Anche il resto del cast svolge più che egregiamente il proprio lavoro sebbene sia formato quasi esclusivamente da attori alle prime armi sul grande schermo, a tal proposito va citato Bryan Cranston, famoso per i suoi ruoli nelle serie di successo Malcom in the Middle e Breaking Bad; Cranston da il meglio di sé in questo film interpretando il meccanico zoppo, mentore e unico amico del driver.

Brian Cranston si conferma un grande professionista: la sua interpretazione è sicuramente un valore aggiunto per la pellicola.
Inoltre l’atmosfera di una Los Angeles notturna è ricreata egregiamente grazie anche alla colonna sonora curata da Cliff Martinez e che presenta brani di artisti quali Kavinsky e David Grellier.
Drive è un’opera che va vista almeno una volta nella propria vita, un film che lascia il segno e che diverrà sicuramente una pietra miliare nel genere drammatico. Un piccolo capolavoro che difficilmente verrà dimenticato, uno di quei film di cui si comprende il vero valore solo a diversi anni di distanza.
Il mio consiglio è quindi quello di guardarlo per apprezzare le diverse sfaccettature di un film che vi saprà coinvolgere come poche altre opere, cinematografiche e non.
Oblivion Is Right
(A cura di Wise Yuri)
Tom Cruise in nuovo film di fantascienza dalla premessa e dal trailer promettenti. Cosa può andare/va storto?
In realtà non molto. Ma siamo comunque molto lontani dal blockbuster e dall’operone sci-fi che apparentemente molti si aspettavano da questo film (su quali basi, e lo dico senza sarcasmo). Se non avete già perso interesse nel film, proseguiamo. 🙂
2077. La razza umana ha vinto la battaglia contro una civiltà aliena che voleva il pianeta, ma è dovuta ricorrere al nucleare, e con la luna distrutta nel processo, maremoti e disastri naturali hanno spazzato via gran parte della popolazione. Con in previsione la migrazione verso Titano di ciò che rimane dell’umanità, è necessario che vengano inviate delle trivelle/contaneir per assorbire quanta più acqua possibile dal pianeta, immagazzinarla per poi portarla sul nuovo pianeta (una luna in questo caso, come detto dal film stesso, ma dettagli). A gestire e proteggere le trivelle da assalti dei alieni (chiamati qui Scavenger) su quel che rimane della Terra ci sono dei droni, ma chi ripara ed osserva i droni? Una squadra di meccanici, composta da Jack Harper e della sua compagna/partner lavorativa Victoria. Ma Jack incomincia a notare delle cose strane, e cosa incredibile visto che a tutti gli umani è stata imposta una cancellazione della memoria (prima che ve lo chiediate, no, non l’ho fatto di proposito a recensire due opere sci-fi con il tema comune della perdita di memoria), incomincia a… ricordare.
La premessa non è male – non troppo originale, ma neanche troppo generica-, il cast non è male, gli effetti speciali sono molto buoni, la regia è convincente (apparte alcuni “singhiozzi”), ma purtroppo i personaggi e l’intreccio si rivelano essere i punti deboli dell’opera. Va concesso che la prima metà del film non è affatto male, vi introduce i personaggi e l’ambiente, e ve li fa conoscere un pò, oltre a mostrarvi un pò di azione. Ma poi finita la “fase introduttiva” arrivano colpi di scena e clichè di genere come se piovesse, che non ve li dico (non vi avrei detto cosa succede comunque, la sapete la mia politica sugli spoiler) ma potete benissimo immaginarveli. Ora, parliamoci chiaro, non tutti i clichè vengon per nuocere (ed in un certo senso se usati con cura funzionano, sarebbe interessante fare una discussione/articolo su questo argomento), ma con un esecuzione così standard -e ciò nonostante un pò confusionaria-, tutti i colpi di scena riescono ad essere prevedibili, e vi ritroverete a pensare “mò succede questo”, senza venir (quasi) mai “delusi” dal film.
Tolti un buon design dei veicoli (bello l’elicottero/aereo), buoni effetti speciali, buone visuali e buone/decenti scene d’azione, c’è un film che dopo una partenza buona cerca disperatamente di darsi un significato più profondo, e non riuscendo a far ciò, decide di usare quasi a casaccio tutti i colpi di scena ed i clichè del genere sci-fi che riesce a trovare, dimenticandosi di caratterizzare in maniera convincente i personaggi – lasciandoli poco più che bozze e stereotipi -, e con un intreccio che impila clichè su clichè, alcuni dei quali funzionano, ma molti no, con il risultato che alla fine ci sono buchi qua e là nella trama. Il finale….. è il classico “lo so che non ha senso ed è dozzinale, ma lo volevamo happy questo ending, ci importa poco della logica”. A buon intenditore, poche parole.
Il cast come dicevo prima, non è male, peccato che la caratterizzazione dei personaggi sia poco più che terra terra, l’esempio migliore è forse quello di Morgan Freeman nei panni del boss/capoccia di turno, che praticamente instilla le “rivelazioni” al protagonista, dice che “si fida”, e basta. Da una parte vorrei essere al suo posto, fare tantissimi ruoli da “tizio tosto” che fa sul serio e la sa lunga (penso seriamente che ormai i ruoli di questo tipo gli prenda in bundle), recitare per massimo 10 minuti a film, e guadagnare un fracco. Ora, sto scherzando, voglio bene a Morgan Freeman, è un’ottimo attore, ma ciò vuol dir poco, perchè anche Cruise non è mica Tommy Wiseau, ma evidentemente ciò non gli impedisce di scegliere ruolini in filmetti come questo, od il mediocre action movie Jack Reacher (uscito ad inizio anno). Peccato.
Le tematiche non sono originali, ma non sono neanche orribili (le solite morali dei film di fantascienza), certo è che potevano funzionare meglio se buona parte dell’intreccio non fosse stato così prevedibile e un pò tirato via.
Commento Finale: Oblivion, nonostante i suoi difetti, è un film di fantascienza, che nella sua prevedibilità e con i suoi difetti, ha i suoi momenti, intrattiene e si lascia guardare (e vi dà quanto promesso dal trailer). Una premessa non malvagia e personaggi potenzialmente interessanti purtroppo fanno ben poca strada, per far spazio a decenti scene d’azione, buoni effetti speciali, ed una narrazione ed un intreccio costruiti in maniera un pò sghemba su clichè abusati. dire che è un film brutto sarebbe sbagliato, Oblivion a conti fatti è un film sci-fi nella media, che resta saldamente in quella zona di sufficienza (un pochino risicata, va ammesso), sopra la mediocrità, ma lontanissimo dall’eccellenza. Dimenticabile, ma c’è di peggio e male non vi fa. 🙂
Questo era l’ultimo articolo del Weakly Hobbyt di questa settimana, come sempre ci vediamo qui settimana prossima per una nuova pausa caffè tutti assieme; che stasera vinca il migliore e a tutti voi, una buona domenica! =)
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